Renato Barilli:
“Ecco la ricetta per capire l’intero universo del nostro autore, sempre pronto a imprimere un colpo di bacchetta magica per operare il rovesciamento, col che i reticoli funzionali di disegno professionale, apprestati al servizio di architetti e designer, gli si sono mutati in labirinti fantastici, in percorsi incantati, in cui per lui era bellissimo perdersi, gettandone via la chiave per non essere obbligato a uscir fuori. Tanto, egli possedeva in pieno la virtù di allargarli, di sfondarne le pareti, di aprirsi continuamente nuovi varchi, come un insetto laborioso che non si arresta mai e continua paziente e tenace nell’opera di scavo.
Ma a questo proposito affidiamoci pure a una nuova attualizzazione, ritengo che Mazzotti sarebbe stato ben lieto di approdare ai nostri tempi, quando le armi del computer e del video hanno reso possibile alle immagini grafiche lo scorrimento temporale. In fondo, questo suo sogno, o bisogno congenito di scavarsi tunnel, gallerie, vie di fuga, uscite di sicurezza, l’artista è stato costretto a consegnarlo a una serie innumerevole di varianti, però ferme e statiche, immobilizzate sulla tela, nel che, sia ben chiaro, sta anche la loro virtù e bellezza, ne viene un qualità innegabile. Ma certo, all’altezza delle nuove tecnologie, egli avrebbe potuto affidare il suo incessante variantismo al mutare delle forme, delle costellazioni, degli assetti che oggi sono resi possibili dal video, ovvero la fabula de lineis et figuris avrebbe potuto divenire cangiante sotto i nostri occhi, di noi divenuti degli spettatori affascinati, seduti in poltrona ad ammirare uno spettacolo sfolgorante pronto a sfilarci davanti agli occhi. Naturalmente, accanto al cangiantismo di linee e figure, c’è subito da ricordare la variazione anch’essa ampia a livello cromatico. Prigioniero entro la normale tecnica pittorica, Mazzotti era costretto a ricominciare ogni volta daccapo, scegliendo l’intonazione cui ricorrere per darci un suo ennesimo labirinto o casellario, decidendo sul campo se attenersi a una gamma di colori caldi, solari, o invece freddi, notturni. Pur di precisare che, dopo i primi cimenti a contatto con soggetti ancora di sapore naturalista, egli si è allontanato del tutto dalla natura, soprattutto se di specie organica. Il mondo dell’artificiale e dell’inorganico è stato il suo regno, pronto a trarre partito da tutte le risorse conseguenti, per esempio dai colori della spettrografia, quando si sottopongono i metalli a un’indagine della loro conformazione interiore. O si pensi, sempre tenendo presente il paragone offerto dall’universo dei media elettronici, ai tortuosi, multicolori tracciati con cui si rappresentano i circuiti delle microchips”. (testo critico in catalogo alla mostra retrospettiva nel centenario della nascita, Bologna, Palazzo D’Accursio, 2015, Zona Editrice).
Francesco Arcangeli:
“Chi ha gli occhi per la pittura - e per la pittura, checché ne dicano gli ideologi della critica, ci vogliono, sì, questi occhi - potrà ben compiacersi allora di tante belle riuscite di questo schietto, serissimo artista, per cui il dominio e la scansione della forma non vogliono mai distaccarsi - e non si distaccano dal nitore squillante e brillantemente calcolato del colore. Qualche cosa, nella pittura di Mazzotti, splende e chiama; qualche cosa che si definisce con tanta chiarezza da rigenerare, a un certo punto, dal seno stesso della ricerca pittorica, il desiderio e il confronto con una nuova e più sintetica realtà. Il fantasma della figura torna a ossessionare l'artista; e le sue figure paiono riesporci, e quasi riproiettare, una vita cui l’art déco aveva dato chiarezza e, si vorrebbe dire, sportiva modernità. Tuttavia le figure di Mazzotti son pur quelle d'un italiano, per cui la pagina pittorica, che ha l'impatto d'un “placard”, si imprime entro una studiata maestà di presenze e di ritmi; e qui sarebbe da svolgere, ma sarà per un'altra occasione, il tema della continuità segreta della tradizione nella sua arte. Nello stesso momento, infatti, che pare egli voglia soltanto aprire un nuovo capitolo della “nuova figurazione”, spinge questo capitolo a una solenne misura di zone, di grandiosi incastri, di volumi appena scanditi da compresse ombre portate. Di quest'ultima inclinazione della sua pittura è qui, probabilmente, non più che un importante accenno; ma essa attende ancora lavoro e lavoro per arrivare a conclusioni anche più alte. Mazzotti, d'altra parte, è profondamente avvezzo al sacrificio appartato, che, per di più, gli è intimamente congeniale. Questa sua ultima apparizione ha una forza, limpida e problematica ad un tempo, per cui non sembra difficile prevedere un vero futuro ai molti anni di pratica dell'arte che ancora lo attendono.” (testo critico in catalogo della mostra personale; Galleria Forni, Bologna, 25 novembre - 8 dicembre 1972 – Cat. N.64, Grafis, 1972; in seguito pubblicato in Arte e Vita, pagine di galleria 1941-1973. Accademia Clementina, Massimiliano Boni Editore Bologna, 1994, Vol.2, pagg. 695-697).
Giorgio Cortenova:
“I lavori di Mazzotti ci riportano in quel mondo a metà tra l’optical e l’astratto-architettonico che finora ha caratterizzato il suo spazio operativo. Non ingannino i termini: si tratta di architetture ridotte alla sintesi e di un “OP” recuperato al ritmo dei sentimenti privati. Forse azzardo ma sembra che l’autore intraveda la struttura di una città moderna attraverso le persiane di una vecchia casa bolognese. L’optical ama per sua natura il contatto di colori contrastanti, nello sgargiante imbarazzo della loro aggressività. Da qui invece interviene un tenero beige, il verde conosce gli umori dell’autunno e il rosso è tentato dai toni della ruggine. Comunque sia anche quando i colori cantano a squarciagola, il tonalismo inquina alla base lo slancio iniziale. Il “freno” giunge opportuno, filtrando, in una dimensione intima, quelle evoluzioni a modo loro monumentali, oppure la sfaccettatura di una luce artificiale. Un senso metafisico degli spazi? Può darsi. Di sicuro la decorazione, quando incide i piani, si gela nella sospensione di un tempo che si è fermato per sempre.” (L’urlo di Frohner, l’ironia di Arroyo, l’intimismo di Mazzotti, in «Il Giornale d’Italia», Bologna, 6-7 dicembre 1972).
Renzo Biasion:
“La pittura di Mazzotti è pittura di meditazione e di serenità, che conserva in misura netta il senso classico del colore per timbro, sonorità e qualità del suo tessuto, compatto e rilucente […]. Mazzotti è perfettamente consapevole della molteplicità delle componenti che devono essere presenti in un dipinto per fare di esso un’opera viva, e sa anche che devono avere un loro calcolato peso, sì che nessuna prevalga a danno delle altre. Tuttavia non vi è dubbio che un ruolo di assoluta preminenza egli lo assegna al colore, per cui i suoi dipinti hanno un fascino ed un potere di presa che subito conquista il riguardante. Il suo libero astrattismo geometrico ha radici profonde nei disegni preparatori eseguiti con una precisione analitica e descrittiva che fanno pensare alle acqueforti di Piranesi.” (Mostre. Antonio Mazzotti, in «Oggi», Milano, 21 dicembre 1972).
Luciano Bertacchini:
“Le sale della galleria bolognese Forni offrono l’incontro con il nitido, geometrizzante mondo pittorico di Antonio Mazzotti. Quaranta opere di intensa, coerente attività, ed il graduale passaggio da uno scandito contrapporsi di forme realistiche alla rigorosa misura di strutture astratte, dal razionale linguaggio di fantasiosi incastri alle recenti immagini di “figura-ambiente”. Sempre, nel lavoro di Mazzotti”, un matematico disporsi degli spazi, un succedersi ritmico di perfette campiture di colore. Pittura studiata a lungo, ricca di avvertimenti culturali, carica di una qualità esecutiva che può ricordare gli antichi maestri fiamminghi.” (Di mostra in mostra - Cieli e Fantasmi, in «Arterama», 12, IV, dicembre 1972).
Arrigo Grazia:
“Un incontro tra arte e optical e nuova figurazione mi sembra il punto su cui si svolge la ricerca di questo artista. Pittura pulita e calcolata in ogni particolare, si avvale di un colore ricco e squillante, e passa dalla chiarezza dell’astratto alle preziosità di un rinnovato liberty, dove figure dai contorni marcati vengono riempite con disegni somiglianti ad antiche, fini stoffe, con effetti di limpida freddezza” (Artisti e gallerie. Mazzotti, in «L’Unità», Bologna, 2 dicembre 1972).
Giorgio Ruggeri:
“[Egli] rivela mutevoli interessi culturali, sempre però agganciati a un rigore formale acculturatissimo […] Anche esperienze optical, diciamo Vasarely, hanno trovato udienza, sempre però congiunte alla forma classica, con gusto anche rinascimentale. A volte il piacere della pittura gli prende la mano e l’ingordo pittore strafà sulla tela, innamorandosi di particolari che turbano la “macchina” […] ma il taglio c’è, e anche la stoffa, e nel presente revival di nuove figurazioni, Mazzotti può trovare spazio e allori.” (Il pittore Antonio Mazzotti scende in campo. Peccati e virtù, in «Il Resto del Carlino», Bologna, 6 dicembre 1972).
Marcello Venturoli:
“Se nelle stampe l’artista bolognese ha condensato piuttosto un solo momento del suo iter, puntando sui suoi massimi risultati astratti, davanti a questi lavori non si rimpiange nessuna delle altre sue fasi, perché qui è presente il metodo e il sentimento di tutta la sua arte, una specie di prova del nove del suo rigore pittorico, una scommessa col finito, col perfetto, tra segno e cromia, il ritratto di una “officina”, condotta esemplarmente dal gusto purista astratto al costruttivismo, nel rispetto della tradizione avanguardistica e questa come verifica della sua ispirazione”.
Elda Fezzi:
“[…] Questa astrazione narrativa di Mazzotti, ricca di “figure” e di “forme”, di spunti avveniristici e insieme di ricordi dei “margini astratti” musivi e a fresco dell’antica pittura italiana, sottilmente impiegati tra favola e ironia, sia una delle più intense manifestazioni di eloquenza discorsiva, di intuizioni poetiche ed esoteriche ritrovate attraverso e al di là delle formule indicate dall’esperienza dell’ “abstraction-création”. […] Anche l’astrattismo è divenuto un patrimonio di forme illusionistiche, e Mazzotti infatti se ne serve abilmente, in modo ludico e irriverente, come del resto sfrutta ogni colore ogni valore prospettico, l’a-plat e il trompe-l’oeil, con estrema libertà, senza tuttavia perdere di vista uno spessore emotivo, una sorta di infinita, amorevole assistenza – quasi da antiquario stilista – per queste sue creature. […] Per lui le forme astratte sono «tutte insieme forme naturali», che «hanno la possibilità di scavare nel fondo delle memorie, dell'inconscio, del desiderio». […]” (testo critico in catalogo della mostra personale, Galleria Le Mura, Cremona, marzo 1976).
Bartolomeo De Gioia:
“Nulla è affidato al caso, né potrebbe essere diversamente poiché Mazzotti è da uno spazio figurativo che prende le mosse per ritmare in successione crescente ma consequenziale i segni ed i simboli la cui risultante ultima è sempre in un armonioso equilibrio che va a collocarsi. E’ da oltre dieci anni che l’artista insegue, ma senza affanno, i suoi liberi temi nulla concedendo al caso o all’emotività […]. La bellissima mostra testé chiusa alla galleria “Il Triangolo” di Cremona che tanto successo ha riscosso è la riprova che il cammino percorso dall’artista, confortato dall’incoraggiamento di Arcangeli, è quello giusto.” (Antonio Mazzotti. Galleria “Il Triangolo”, in «Iterarte», 17, V, Bologna, giugno 1979).
Franco Solmi:
“Questa mostra ferrarese rende omaggio, il primo da parte di una pubblica istituzione, a una personalità isolata ma non isolabile, che non può essere facilmente sommersa sotto il peso delle citazioni che pur si sono utilmente fatte per cercare di analizzarne le componenti di formazione. Se si tiene presente quanto detto più sopra, la dissezione sarà meno sviante e potranno essere riportati all'unità dell'artista che li ha accolti e filtrati i momenti separati della citazione: dall'astrattismo italiano, dal quale Mazzotti dipana il suo lavoro per forza di dinamismo, alla metafisica, al simbolismo di implicazione magico-rituale, in cui sarei propenso a comprendere le opere che Venturoli definisce di “figurazione nuova” e quelle indicate da Elda Fezzi come frutto del lavoro di 'un disincantato e supremo giocoliere della parola e dell'immagine'. Aggiungerei per mio conto un accento sulla teatralità e sulla ritualità dell'immagine che non riesce a ridursi al piano di superficie ma si fa ambiente di azioni possibili o impossibili, non importa. Va cioè ben oltre quella capacità di integrarsi 'in ambiente' che ha reso grato Mazzotti agli architetti e ha fatto scambiare ai critici per architetture (o per derivati di questo tipo di disciplina) o per mimesi urbanistiche spazi che sono gratuiti in quanto teatrali, e necessari solo perché partecipano di quel rituale assurdo, difficile e quotidiano che è pratica e desiderio dell'inattuale poetico.” (Dalla figura alle forme inventate, testo critico in catalogo della mostra antologica; Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 23 settembre - 14 ottobre 1979).
Marilena Pasquali:
“Una notazione comune a tutta la critica su Antonio Mazzotti si riferisce al suo sostanziale appartarsi dai campi aperti del dibattito per privilegiare il rapporto ravvicinato, interiore, silenzioso con l'opera e con il suo svilupparsi in immagine. […] Certo che la situazione a Bologna, e non solo negli ultimi trenta - trentacinque anni, non è stata tale da favorire e comprendere i linguaggi «mentali» che fanno capo alla grande matrice dell'astrattismo europeo. In terra di caldo naturalismo, di attenzione alle sfumature tonali e sensoriali della materia, vita non facile hanno condotto sia le meteore liriche di Korompay che le immagini sospese di Romiti, artisti a cui sovente Mazzotti è stato avvicinato più per parallelismi di situazione che per similarità di proposta. Anche per il nostro pittore, infatti, si è trattato di un percorso affatto personale di circa quarant'anni che egli ha saputo costruire, opera dopo opera, per rilevare la propria individualità.
L'isolamento gioca anche un ruolo positivo e si pone come esigenza intrinseca al lavoro dell'artista, il quale non potrebbe lasciarsi avvolgere dai suoi reticolati di colore, sperdersi in sogni di antica pietra e sogguardare attonito idoli silenziosi, se non si fosse creato un proprio spazio magico, proibito o almeno sconsigliato agli altri, in cui spirano soltanto le aure selezionate dall'artista e giungono come ritmico brusio i rumori del mondo. Solitudine quindi non come mancanza di interesse, rifiuto cosciente della riflessione e della proposta altrui, ma come veicolo per meglio «comprendere» - raccogliere insieme - quelle suggestioni culturali di provenienza anche assai diramata ma di intensa presa emotiva che l'artista ama assumere come linfa vitale per il suo lavoro.
[…] Di fronte alle opere di Mazzotti si avverte la dilatata disponibilità mentale che gli è stata propria attraverso gli anni e che ha segnato ogni sua sperimentazione. Il fatto stesso di ricercare senza sosta, di credere nell'indagine all'interno di se stessi e fuori, nel mondo dell'arte e della cultura, come unica strada per dar vita ad immagini autonome, connota il suo atteggiamento artistico e lo riconduce non solo alle teorizzazioni delle avanguardie storiche di questo secolo ma anche all'immenso patrimonio speculativo che è proprio alla cultura occidentale moderna. All'uomo-artista, visto come centro di ogni esperienza sensibile, tutto si ricollega in impronta vivificante e in trasfigurazione consapevole, mentre l'antico motto galileiano del «provando e riprovando» pare volersi di nuovo mettere in gioco in una ricerca iterata che testimonia l'ampia libertà di pensiero dell'artista e la sua caparbia volontà di costruttore. Credo che tale visione antropocentrica dell'atteggiamento artistico di Mazzotti si ponga come ipotesi valida per ripercorrerne ogni espressione, rimarcandone lo spessore profondo ed il senso poetico che la rendono valida e necessaria. […] Vengono alla mente alcuni altri nomi, validi come citazione di atteggiamento mentale ed emozionale, e sono quelli di Alberto Magnelli - a cui Mazzotti è vicino per la ricerca di ritmi puri e di dialoghi spaziali che portano ad una «esplosione della materia»; di Frantisek Kupka per l'importanza attribuita all'esperienza musicale e per la tensione ad un'assoluta purezza del colore; di Gleizes e Manessier per le esperienze di scomposizione della forma e per i tentativi di arricchire la visione cubista attraverso una nuova concretezza; di un certo Klee dal fascino profondo, di cui Mazzotti ritrova scansioni ritmiche e forme elementari trasfigurate nel sogno. Non si vuole con queste affollare il discorso con citazioni erudite, nè accostare all'artista bolognese alcuni «parenti scomodi» di implicazioni troppo vaste, ma indicare un'area di riferimento valida per configurare un ambiente culturale ed una condizione di ricerca che Mazzotti arricchisce senza sosta, cogliendo umori e visioni assorte dall'antica arte italiana: dagli ori delle cattedrali come dai paesaggi pietrificati degli affreschi medievali, dall'alabastro traslucido di antichi sacelli inviolati alle giunture metalliche di battaglie rinascimentali.” (testo critico in catalogo della mostra antologica tenutasi presso la Galleria d’Arte Moderna, Bologna, aprile - maggio 1983).
Lino Cavallari:
“E’ stato uno dei rari artisti bolognesi dell’immaginazione astratta ed esatta, se non l’unico artefice al più alto potenziale di immagini architettoniche razionalmente strutturate; […] fra Piranesi ed Escher venne elaborando quella originale poetica dell’ingannevole, dell’essere qui e altrove, che fu poi la sua sigla definitiva. […] Pochi, vedendolo così dimesso, gli avrebbero attribuito una così acuta creatività ottico-sensoriale, apparentabile per alcuni versi a Soldati e per altri a Veronesi e Grignani.” (L’astrazione, il suo ideale. Morto il pittore Antonio Mazzotti, in «Il Resto del Carlino», Bologna, 12 dicembre 1985).
Lamberto Priori:
“Con molto impegno ne sono stati indagati i punti ritenuti nodali: dall’alternativa figurativo-astratto, che forse è un falso problema, in quanto certe apparizioni figurali nella fase matura non alterano la tensione della ricerca, e se mai è il “pedale” del sentimento che gioca una risonanza più sospesa o stupita, alla comunanza di spiriti con gli architetti, che fa molto Bauhaus; da talune assunzioni decorative ai partiti musicali; da consonanze quindi con Kupka, il poeta delle verticali, della purezza, della musicalità, o con più prossime vicende astratte (Magnelli) alla “teatralità” cui ha accennato Solmi […] ; dall’attenzione per le materie alla ritualità di determinati ritmi e presenze; dalla magistralità del “giocoliere della parola e dell’immagine” a certi accenni immaginifici, magici o esoterici, verso i quali noi siamo sempre assai cauti, in quanto Mazzotti ha una complessità che è sempre il portato di energie profondamente chiarite al momento dello sviluppo.” (Antonio Mazzotti. Dipinti e disegni, testo critico in catalogo della mostra antologica tenutasi presso Palazzo Camponeschi, Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi, L’Aquila, 12 - 28 maggio 1988).
Monica Miretti:
“Mazzotti apre un dialogo diretto con lo spazio – in cui si avvertono anche echi di Magnelli – nel quale si dilatano forme ossessivamente costruite, ma poi agglomerate, incastrate le une nelle altre. Si avverte, nelle sue opere, un tecnicismo quasi computerizzato da cui nasce la perfezione formale, l’assoluto geometrismo delle immagini; ma esiste già un primo sconcerto, affidato al colore e surrogato da quel senso di vertigine che certi lavori acquisiscono quando l’impalcatura mentale sembra perdere peso corporeo e librarsi nel vuoto. E’ un attimo. Poi emerge il colore, dalla tessitura uniforme, senza vibrazioni ma brillantissimo, capace di accordi assoluti, di contrasti anche violenti o di squillanti soluzioni, nella forza di certi arancioni quasi famelici”. (Dialettiche Polarità, testo critico in catalogo della mostra collettiva tenutasi alla Galleria d’Arte Paolo Nanni, Bologna, ottobre 1995).